Dentro la reflex

Gianluca Li Causi

Marzo 1999

 

Nei precedenti articoli abbiamo usato più volte parole come diaframma, lunghezza focale, esposimetro, vetrino di messa a fuoco, ma non sempre ne abbiamo dato un’estesa spiegazione. In questo articolo quindi, andremo a vedere più da vicino cosa significano con esattezza questi termini, come funzionano nel dettaglio gli oggetti a cui essi si riferiscono e soprattutto come sono relazionati alla fotografia astronomica.

A molti un articolo del genere potrebbe sembrare un po’ banale: in fondo quasi tutti conoscono, almeno a grandi linee, i concetti basilari della fotografia, ma una conoscenza sommaria non è sufficiente quando vogliamo entrare in un campo specifico come quello della fotografia astronomica, inoltre approfondire questi aspetti ci tornerà molto utile anche in seguito, quando ci addentreremo nelle tecniche più avanzate.

Permettetemi dunque di cominciare nuovamente dall’inizio, per organizzare il discorso in maniera compiuta.

 

Il corpo macchina

La particolare natura dei soggetti astronomici rende necessario utilizzare una macchina fotografica di tipo reflex. Con questo termine si intende una fotocamera in cui l’inquadratura si effettua osservando attraverso lo stesso obiettivo con cui si scatta la foto, piuttosto che guardando in un mirino laterale, come avviene nella maggior parte delle macchine compatte. Questo è possibile grazie a uno specchio piano, inserito tra l’obiettivo e la pellicola fotografica, che riflette l’immagine (da cui il nome “reflex”) su uno schermo di messa a fuoco posto al di sopra di esso (figura 1). Questo specchio è montato su un supporto ribaltabile, che si solleva al momento dello scatto fino a coprire lo schermo di messa a fuoco e lascia che l’immagine, proveniente dall’obiettivo, raggiunga la pellicola.


Fig. 1: Schema di una macchina reflex.

 

Il vantaggio del sistema reflex in astronomia è evidente: esso infatti consente di utilizzare il medesimo corpo macchina con diversi obiettivi intercambiabili e, grazie a degli appositi anelli di raccordo, si può collegare l’apparecchio a un telescopio, o a un qualunque altro sistema ottico in grado di proiettare un’immagine. Inoltre nella fotografia astronomica è indispensabile osservare l’inquadratura esattamente così come si formerà sulla pellicola, ma questo è impossibile nelle macchine non reflex.

Ci sono però anche delle caratteristiche negative: per i nostri scopi, l’unico vero inconveniente delle reflex è che, per tutto il tempo della posa, non abbiamo alcun modo di controllare direttamente come procede l’esposizione, proprio per il fatto che lo specchio resta sollevato fino a quando non rilasciamo il pulsante di scatto. Per esempio non possiamo controllare che la messa a fuoco non sia variata durante la posa, o che l’obiettivo non si sia appannato per l’umidità notturna, o ancora che non sia passato un aereo proprio nella zona inquadrata, o che non si sia verificata una serie di altre tipiche situazioni accidentali che sono le cause più frequenti di insuccesso nelle foto astronomiche.

Questo inconveniente è ineliminabile, ma le singole parti che compongono una reflex possono avere caratteristiche più o meno adatte all’astronomia e meritano una descrizione più approfondita. Lo stesso specchio reflex non è uguale in tutti i corpi macchina e i modelli migliori per l’astronomia sono quelli nei quali è possibile sollevarlo manualmente prima di iniziare la posa, per evitare che il suo rapido ribaltamento non trasmetta vibrazioni al telescopio.

Anche lo schermo di messa a fuoco è un elemento da scegliere con cura: di solito esso è un semplice vetro smerigliato, sul quale si proietta l’immagine, ma più spesso è dotato di particolari dispositivi ottici atti a facilitare il perfetto focheggiamento dell’obiettivo, come lo stigmometro e i microprismi, che di solito sono posti nella zona centrale del vetrino stesso. Lo stigmometro è formato da due prismi adiacenti, posizionati in modo tale da separare in due parti l’immagine quando il fuoco non è perfetto, mentre i microprismi sono un’insieme di microscopici stigmometri, che spezzettano un’immagine sfocata in moltissime parti, rendendo subito evidente l’imperfezione del focheggiamento (figura. 2).


Fig. 2: Esistono vari tipi di vetrini di messa a fuoco, il più comune è completamente smerigliato tranne
una zona
centrale dove è inserito uno stigmometro, circondato da un anello di microprismi.
Basta che l’immagine sia appena sfocata per vedere distintamente la trama dei microprismi
sovrapposta al soggetto, come nella foto di Venere in basso (fotografia di Paolo Colona).

 

Vi sono moltissimi tipi di vetrino smerigliato, ma non tutti hanno le caratteristiche più adeguate per l’astronomia. In particolare è frequente il caso in cui la smerigliatura è troppo grossa e disperde troppa luce, rendendo impossibile la visione di oggetti deboli come le stelle, le nebulose, o la Via Lattea. Le macchine fotografiche delle marche migliori prevedono la possibilità di cambiare il vetrino standard per sostituirlo con altri a trama sottile ed elevata luminosità, studiati apposta per la fotografia notturna e astronomica.

In realtà il vetrino smerigliato è un po’ più complesso di come descritto finora: esso, allo scopo di aumentare al massimo la luminosità dell’immagine, è generalmente composto non di uno, ma di due vetri sovrapposti, di cui uno è quello smerigliato, sul quale sono incisi lo stigmometro e i microprismi, mentre l’altro reca delle incisioni circolari che formano una lente di Fresnel, il cui scopo è deviare la luce, proveniente dal piano smerigliato, verso l’oculare della macchina fotografica (figura 3).

Sempre sul vetrino di messa a fuoco è da dire quanto sia importante che esso abbia dimensioni sufficienti a inquadrare l’intero fotogramma senza escludere i bordi, cosa che purtroppo accade nelle reflex più economiche dove, per motivi di semplicità nella costruzione meccanica, la superficie del vetrino è più piccola dell’area inquadrata sulla pellicola, con la conseguenza che non possiamo decidere quali stelle includere o escludere dai bordi della foto.


Fig. 3: Vetrino di messa a fuoco visto in sezione: è mostrato in particolare il funzionamento della lente di Fresnel.

 

A causa della riflessione speculare, l’immagine che si forma sul piano di messa a fuoco si presenta invertita rispetto al vero, nel senso che la destra è scambiata con la sinistra; per osservarla come appare nella realtà, viene inserito, prima dell’oculare, il cosiddetto pentaprisma: un prisma di vetro sagomato in modo tale da ribaltare nuovamente la figura e che, oltre a questo, permette di guardare l’immagine dal lato posteriore della macchina fotografica (figura 1).

Il fatto di poter osservare attraverso l’obiettivo quando la pellicola non è esposta, implica che l’otturatore non può essere posto all’interno dell’obiettivo, come avviene nelle compatte, ma dev’essere montato posteriormente allo specchio reflex, appena prima della pellicola. Questo tipo di otturatore si chiama tendina ed è costituito da una o più lamine, le quali impediscono, o permettono, il passaggio della luce rispettivamente sovrapponendosi le une alle altre, o scorrendo da un lato (figura 1).

In fotografia astronomica c’è solo un caso in cui dobbiamo stare attenti al tipo di tendina ed è quando fotografiamo il Sole senza filtri di attenuazione, come per esempio nella ripresa di un tramonto: alcune macchine fotografiche hanno una tendina di tela e uno specchio reflex che si riabbassa solo con il caricamento del nuovo fotogramma, perciò, se fotografiamo il Sole, la sua luce continuerà a proiettarsi sulla tendina anche dopo che questa si sarà richiusa, rischiando di bucarla per via della concentrazione di calore. Questo problema non si presenta con gli apparecchi più moderni in cui la tendina è metallica e lo specchio ritorna in posizione appena si è terminato lo scatto.

La reflex più adatta alla fotografia astronomica è inoltre da scegliere tra quelle completamente manuali, o che almeno abbiano la possibilità di escludere del tutto gli eventuali automatismi. In paricolare essa deve funzionare in posa B senza bisogno delle batterie: nelle macchine in cui questo non è possibile, esse si scaricano per mantenere sollevato lo specchietto e si rischia che si esauriscano completamente, provocando la chiusura dell’otturatore proprio nel mezzo di una lunga posa.

Le pile inoltre mantengono accesa, per tutta la durata dell’esposizione, una spia luminosa che di solito è presente all’interno dell’oculare, per indicare i suggerimenti dell’esposimetro, ma la sua luce, filtrando in qualche piccolo spazio tra le parti meccaniche, potrebbe finire per essere rivelata dalla pellicola, specie in un lungo tempo di esposizione come quelli della fotografia astronomica (figura 4): la regola di togliere sempre le pile dalla macchina fotografica non deve essere mai dimenticata!


Fig. 4: Questa foto della rotazione della volta celeste è stata effettuata senza togliere le pile dell’esposimetro
dalla macchina fotografica: la luce della spia luminosa, presente nell’oculare, è filtrata fino alla pellicola,
provocando l’alone rosso visibile sulla destra (fotografia di Guido Baroncini Turricchia).

 

         

Gli obiettivi fotografici

La base del funzionamento di una macchina fotografica è il noto principio del foro stenopeico: se prendiamo una scatola chiusa e vi pratichiamo un forellino su una parete, sulla parete opposta verrà proiettata un’immagine della scena che si trova davanti al buco. Le sole ragioni per cui questo semplicissimo sistema non si usa nelle macchine fotografiche, sono che il foro, che deve essere molto piccolo, raccoglie troppa poca luce, sia per le istantanee diurne che per le foto astronomiche e che la nitidezza dell’immagine non è molto buona. Al posto del foro si può usare una lente, che ha anch’essa la proprietà di formare un’immagine e raccoglie più luce del forellino.

Sia con il foro stenopeico, sia con la lente, la grandezza dell’immagine è proporzionale alla distanza a cui essa viene proiettata (come è intuitivamente mostrato in figura 5) ed è proprio questa la distanza quella a cui ci si riferisce quando si parla di lunghezza focale (o semplicemente focale). Si capisce quindi perché, ad esempio, un teleobiettivo da 300 mm di focale ingrandisca molto di più di un grandangolare da 24 mm.


Fig. 5: Sia col foro stenopeico, sia con la lente, l’ingrandimento dell’immagine è proporzionale alla
distanza di proiezione (che per la lente si chiama lunghezza focale): nella figura si vede come
un obiettivo di lunga focale possa inquadrare, nelle dimensioni della pellicola, un’area di cielo
più piccola che un obiettivo di corta focale.

 

Per ottenere un’immagine di qualità tuttavia, non è sufficiente usare un’unica lente, ma sono necessari sistemi ottici più complessi, formati dall’accoppiamento di molte lenti. In questo caso non è più così facile misurare la lunghezza focale, poiché la distanza tra l’obiettivo fotografico e la pellicola non è ben definita: infatti da dove partireste, sull’obiettivo,  per misurare questa distanza?

Le leggi dell’ottica geometrica ci dicono che la lunghezza focale di un sistema di lenti va misurata a partire da un punto particolare, chiamato punto nodale, che può trovarsi in posizione anteriore, intermedia o posteriore al sistema stesso, a secondo del tipo di lenti che lo compongono. Questo punto si trova all’incrocio tra i prolungamenti del raggio incidente e del raggio emergente (figura 6). Gli obiettivi grandangolari sono progettati in modo che il punto nodale cada tra l’ultima lente e la pellicola, cosicché possa rimanere uno spazio sufficiente (detto tiraggio) per far muovere lo specchio reflex all’interno del corpo macchina; obiettivi di questo tipo si chiamano retrofocus. Al contrario, nei teleobiettivi il punto nodale è posto anteriormente alla prima lente, in modo che l’intero obiettivo possa essere più corto della propria focale, al fine di permetterne una maggiore trasportabilità; gli obiettivi con questa caratteristica si dicono telefocus.


Fig. 6: La lunghezza focale di un sistema di lenti complesso, come un obiettivo fotografico, è la distanza
tra il piano della pellicola P e il piano principale (indicato con P.P.); questo è il piano che
passa per un punto N, detto punto nodale, che si trova all’incrocio tra i prolungamenti
del raggio incidente e del raggio emergente. (Con T è indicato il tiraggio e con F la focale).

 

Oltre a raccogliere più luce rispetto al foro stenopeico, gli obiettivi fotografici consentono anche di variare questa luce per mezzo del diaframma, come abbiamo già visto in un articolo precedente e anche la posizione di quest’ultimo, all’interno dell’obiettivo, è stabilita dalle regole dell’ottica. Il diaframma deve variare la luminosità dell’immagine nello stesso modo in ogni parte di essa, perciò viene posizionato esattamente nel punto dove i raggi provenienti dalle varie direzioni si incrociano tra di loro: in figura 7  ne vediamo un esempio.

            Avendo visto come funzionano gli obiettivi, possiamo ora comprendere meglio il significato del rapporto focale (anche detto apertura), cioè di quei numeri, indicati sulla ghiera dei diaframmi, con cui si misura la luminosità di un obiettivo: esso è il rapporto tra il diametro iniziale del fascio di luce che passa nel diaframma e la lunghezza focale. In modo meno matematico e più intuitivo, questo significa che un numero di diaframma basso, ad esempio F/2, corrisponde ad una grande ampiezza del cono di luce che si concentra nel fuoco e quindi ad una grande luminosità, mentre un numero di diaframma alto, ad esempio F/8, rappresenta un cono di luce stretto e quindi a poca luminosità (figura 8).

Questo spiega anche il motivo per cui l’esposizione corretta per una foto non dipende da quanto è largo l’obiettivo, ma unicamente dal suo rapporto focale: ad esempio il giusto tempo di posa per un grosso telescopio, che abbia un rapporto focale di F/4, è esattamente lo stesso che per un obiettivo normale, usato anch’esso ad F/4. Infatti un telescopio raccoglie certamente molta più luce che un piccolo obiettivo fotografico, ma il primo ha anche una focale più lunga e quindi, come abbiamo visto prima, ingrandisce di più l’immagine, perciò è vero che la luce è di più, ma questa luce si distribuisce su un’area maggiore: a conti fatti, la luce che giunge in ogni punto della pellicola è la stessa in entrambi i casi.


Fig. 7: La posizione del diaframma, all’interno di un obiettivo fotografico, coincide con il punto in cui
si incrociano i raggi di luce provenienti dalle varie direzioni: in questo esempio è mostrato
lo schema ottico di un obiettivo fish-eye.

 


Fig. 8: Il rapporto focale è una misura dell’ampiezza del cono di luce al fuoco di un obiettivo (o di un telescopio):
più è alto il rapporto focale, più è chiuso questo cono e più è scura l’immagine.